Archivi del mese: agosto 2021

Saida, una santa sufi

Per i suoi nemici, non per chi in Saida Manoubia vedevano un simbolo dell’affrancamento da una condizione marginalizzata. Tanto che il suo mentore spirituale, Hassan al Chadhili, uno dei maggiori esponenti del sufismo, l’autorizzo’ a creare, lei donna e per molti eretica, una confraternita nell’ambito del suo ordine, la Chadiliyya. Un unicum piu’ che un privilegio. Anche la vita privata fu oggetto di una campagna di odio nei suoi confronti perche’, quando andava a pregare sulle colline che sovrastano Tunisi, si faceva accompagnare da quello che, ironicamente, era definito come il suo ”favorito”.

Ma tutto questo non ha scalfito, almeno sino ad oggi, la considerazione di cui gode, tanto che su di lei e’ stata redatta una agiografica da uno degli imam della moschea di Zitouna, che, sino all’avvento del laico Bourghiba, era la piu’ importante del Maghreb e ”gareggiava” con al Azhar per la supremazia nell’islam sunnita. Saida: donna, sapiente e libera, un bersaglio fin troppo facile per i salafiti tunisini di oggi che cercano di riportare indietro le lancette della condizione femminile nel Paese, tutelata da una legge, adottata subito dopo la fine del protettorato francese,la prima e piu’ avanzata nel mondo arabo.

Ma questa volta la scelta dell’obiettivo sembra destinata a creare una frattura dentro i musulmani tunisini perche’ si rivolge non tanto ad un simbolo dell’odiato sufismo, quanto perche’ indirizzato a chi, quasi otto secoli fa, andando contro la morale imperante, seppe, donna di origini umili, emergere in molti campi, spesso lontani, come le scienze, la teologia, la giurisprudenza islamica. Una donna che, cosa inattesa e non accettata, volle lavorare e scelse di farlo non nei quartieri piu’ poveri. A nove anni era considerata, per le cose che conosceva e faceva, una bambina prodigio, ma i pregiudizi anti-femminili del tempo mutarono tale giudizio, facendola ben presto bollare come una folle.

(Ansa, marzo 2021)

In Tunisia negli ultimi due anni sono stati dati alle fiamme ben quaranta templi sufi. Alcuni dei quali veri e propri monumenti storici e culturali, risalenti al Medioevo islamico. Anche se nell’Islam, come è purtroppo stranoto, la storia è andata all’incontrario: se all’epoca in questione i costumi dei musulmani erano più liberi di quelli dei cattolici e degli ortodossi, oggi, dopo duecento anni di wahabismo, si può dire esattamente il contrario.

Sia come sia, il governo retto da Ennahada, partito islamico sedicente moderato, in realtà filiazione dei Fratelli Musulmani, si è deciso finalmente a intervenire sia per preservare i tesori della cultura tunisina sia per proteggere “gli eretici sufi”. La  notizia della trasformazione del deserto tunisino in una specie di terra di nessuno della guerra santa, né più né meno di quel che succede in quel del Mali, era stata data da vari media internazionali e da un meritevole servizio del settimanale Tempi diretto da Luigi Amicone.

Nell’articolo si riportavano le opinioni di alcuni esponenti del sufismo tunisino che si dichiaravano preoccupati della piega persecutoria presa dai salafiti contro chiunque non abbracci quell’Islam del fanatismo e della violenza che in realtà ha appigli molto arbitrari nelle scritture del Corano. Vengono riportate le parole di  Mohamed El Heni, segretario generale dell’Unione sufi della Tunisia: «Ripeto che il governo arriva troppo tardi  e noi speriamo che le misure siano messe in atto rapidamente e che non si tratti solo di un annuncio». Certo negli ultimi otto mesi sono stati bruciati ben 40 monasteri e luoghi di culto sufi, come si diceva prima.

Inoltre il misticismo individualista che caratterizza quello che si può definire il “monachesimo islamico” viene visto con molto risentimento da chi invece sta usando l’Islam come elemento della politica espansionista di alcuni Paesi arabi, come l’Arabia Saudita. Di fatto l’Islam, come l’Ebraismo, non media attraverso un sacerdote il rapporto tra l’individuo e Dio. Ma nel tempo si è creata una casta religiosa e parastatale che raccoglie l’eredità dispersa dei Califfi che venne completamente distrutta dai tartari a Baghdad nel 1258. Questa casta è anche quella che esprime la classe dirigente nei Paesi arabi, generalmente più che dispotica, e l’Islam viene usato per controllo sociale interno e per aggressione esterna. Per questo motivo il sufismo è stato sempre perseguitato sin dai tempi di Averroè e anche oggi, quando un partito di ispirazione islamica va al potere, i suoi esponenti vengono visti come i classici “cani in chiesa”. Anzi in moschea.

Dimitri Buffa, L’Opinione.it, 2013

How Tunisia’s resilient Sufis have withstood hard-line Islamist attack

Puritanical Salafist Muslims have attacked Sufi shrines and communities across the Arab world in a campaign to spread their influence. But in Tunisia, where national history and identity are intimately intertwined with Sufism, the Salafis have been thwarted.

Taylor LuckWorshipers give supplications to God as part of a ziker, or Sufi recitation, at the shrine of Sidi Ibrahim Riahi in Tunis, Tunisia, on Feb. 9, 2018.

March 7, 2018

TUNIS, TUNISIA

“La ilaha ill-Allah, La ilaha ill-Allah,” the men, young and old, chant as they rock rhythmically, pressing wooden prayer beads through their hands.

“La ilaha ill-Allah” – There is no God but God – they repeat, every syllable rolling into the next without breath, a never-ending song of faith.

Minutes go by, hours. Such recitations, a pillar of Sufism, are reserved by some communities for special holidays but are part of the weekly, and at times daily, routine here in Tunisia.

Yet in Tunisia, a 1,000-year-old tradition of mystic Sufi orders has been under pressure by a campaign of threats, slander, and vandalism from hard-line Salafist groups seeking to take over mosques and communities since the country’s 2011 revolution.

Salafism, a strict puritanical strand of Islam originating from Saudi Arabia, rejects Sufis for their reverence for holy men and for their worldly search for divine truth in life. They see them as an obstacle to spreading their hard-line interpretation of Islam to parts of North Africa, Asia, and Europe.How the Taliban won: They leveraged Afghan history and culture

In a bid for influence following Arab Spring revolutions, Gulf-backed Salafis and Salafi-inspired groups such as the so-called Islamic State (ISIS) systematically demolished Sufi shrines, kidnapped and assassinated Sufi clerics, and killed Sufi prayer-goers in Egypt, Syria, and Libya.

In parts of the Arab world, Salafis’ voices have become so prominent, many Sufi movements and gatherings have adopted lower profiles to prevent attacks.

But in Tunisia, residents say, the Salafis have failed. They miscalculated, vastly underestimating Tunisians’ historical and generational connection to Sufism. Across the country, neighborhoods and towns are named after Sufi saints, and most Tunisian families can trace their lineage to a Sufi saint or holy person.

“We love God and we love our heritage,” says Mohammed, who is unemployed, after completing a Sufi recitation at the Sidi Ibrahim Riahi shrine in Tunis. “For some of us this is all we have. No extremist can take this away from us.”

Taylor LuckSufi cleric Sheikh Mohammed Riahi stands at the zawiya, or shrine, dedicated to his ancestor, Sidi Ibrahim Riahi, a revered Sufi holy person from the 18th century, in Tunis, Tunisia on Feb. 9, 2018.

Spiritual battleground

It was only natural that Tunisia, the lone success story from the Arab Spring, become a battleground between Gulf-backed Salafism and local Sufism. After toppling longtime dictator Zine el-Abidine Ben Ali, Tunisia established a modern democratic constitution guaranteeing human rights and a level of personal freedoms and transparency far exceeding other states in the region.

Taking advantage of the weakened state right after the revolution, between 2011 and 2013, hardline Salafis took control of most of the mosques in Tunisia. Salafist groups and supporters burned or desecrated 40 Sufi shrines and tombs. Hardline Islamists made inroads in marginalized communities by offering money to open small businesses, cover rent, or pay for weddings.

In many Arab states, Salafis have succeeded in spreading their influence, inciting the destruction of hundreds of Sufi shrines and tombs with little public outcry.

In Libya, Salafist Madkhalis used armed vice squads and alliances with warlords. In Egypt, Salafis are represented in parliament by a political party and their views are broadcast almost 24 hours a day on satellite networks and the radio. In Syria, Sufis have come under pressure from both Salafist groups and jihadists such as Al Qaeda and its various affiliates and ISIS.

But today Tunisians of all backgrounds between the ages of 10 and 90 file into Sufi shrines, or zawiyas, making supplications as routinely as grabbing a morning coffee or getting on the bus for the morning commute.

Out of Tunisia’s 11.5 million population there are more than 300,000 devoted members to various Sufi orders, say experts, who estimate that the vast majority of Tunisians identify with a Sufi order or saint without labeling themselves as Sufi.

“Before there was a Tunisian state, there was Sufism,” Mohammed Jayyoudi, a retired aeronautical engineer says as he leaves a morning recitation at Sidi Mahrez shrine. “We would give up our Tunisian nationality before we give up our traditions and religious practices.”

Sufis in Tunisian history

Sufism flourished in Tunisia starting around the 11th century, a millennium before the modern state, as mystic clerics opened up zawiyas, centers to search for God’s truth, and hosted regular ziker – recitations of Koranic verses, prayers, and the names of God and prophets.

These Sufi zawiyas, which taught Koranic memorization and Islamic jurisprudence, became epicenters of education in North Africa and helped Islam spread out across the continent. 

Sufi holy persons also established schools, hospitals, and markets – building and fortifying towns across Tunisia, even using minarets and strategically placed shrines as a lookout for invaders. Sufi figures also became important leaders of popular and armed resistance movements against French, Italian, and British colonial occupation in the 19th and early 20th centuries across North Africa.

In Tunisia, the shrines to Sufi saints are both geographic landmarks and part of local folklore. Locals in the capital base their directions around the shrine of Sidi Mahrez – known locally as sultan of the medina, Tunis’s old city. And Sidi Bou Said Al Baji, whose tomb on a seaside clifftop overlooks a town of the same name, is believed to protect Tunisia’s coasts from invaders to this day.

And there is a bond stronger than history binding Tunisians and Sufism: blood.

Many Tunisians make annual and sometimes weekly visits to their holy Sufi ancestors’ shrines. Even secular Tunisians are proud of their Sufi lineage.

“We are related to Shadhili, others to Ben Arous and so on,” says Oussama Marassi, a self-proclaimed Marxist, naming prominent Sufi saints. “Whether you pray or not, you will stand up for your ancestor.”

“The Salafis underestimated how central Sufism and Sufi saints are to Tunisians’ identity and personal history,” Sheikh Mohammed Riahi, Sufi cleric and descendant of Sufi saint Ibrahim Riahi, said after completing prayers at his ancestor’s shrine.

“These are our ancestors. When these brazen attacks happened, Tunisians stood with Sufi orders and against extremism. Tunisians will always stand up for their own.”

Women’s role

Another wedge between Tunisians and Salafism is the latter’s male-dominated theology, alien to Tunisians’ progressive attitudes toward women’s role in the workplace and worship.

Women run many Sufi shrines across Tunisia, prepare and serve food for worshipers and the needy, while women are allowed to pray and supplicate at shrines alongside men – a rarity at Islamic sites.

Women take part in joint ziker recitations in shrines and at homes; often sitting in an adjacent room, joining men at the end of the recitations for food and tea. Women even perform their own rituals, such as a weekly recitations and Islamic songs at shrines such as Sidi Abul Hassan Shadhili zawiya in south Tunis.

This more inclusive approach of Sufism in Tunisia, combined with the country’s modernist, secular path since the 1950s, leaves many Tunisians bewildered by Salafis’ harsh restrictions on women.

“The Salafis tell us to stay in the home, clean, cook, and pray there,” says Noor, a Tunisian university student who was at Sidi Riahi zawiya. “All people – men and women – have the right to ascertain truth, remember God, and express their love to God. That is true Sufism.”

While Islamic movements have become hyper-politicized in much of the Arab world, Tunisian Sufis have been largely absent from the political sphere, protecting themselves from political attacks.

“For Tunisians, we don’t think of our way of worshiping and remembering God as Sufism or mysticism, it is just Islam,” says Sheikh Mazen Cherif, president of the Islamic World Union of Sufism, and a Tunisian Sufi thinker. “Sufism here unites, it doesn’t divide.”

Community outreach

Salafist movements have largely spread their hardline interpretation of Islam throughout the Arab world through charity; Gulf oil money funds Salafist charities that feed the poor, renovate homes, pay for university tuition, and provide funds to open small businesses in the Levant and North Africa.

In Tunisia, Sufis have the Salafists beat by around 900 years. Helping the poor has been a pillar of Sufism for nearly a millennium; many zawiyas operated as halfway homes for the needy and homeless, shop stalls were donated to local entrepreneurs.

To this day, Sufi zawiyas offer meals to the needy and worshipers. In multiple shrines visited by this reporter, homeless Tunisians and African migrants took part in communal meals following ziker.

“By giving and breaking bread we are reminded of our Islamic duty to help our fellow man and woman,” Faten Mohammed says as she brings a pot of pasta into Sidi Mahrez shrine. “We don’t need Salafis for this.”

Indeed, as fervent as Salafis may be in their own orthodox beliefs, they know their path forward in Tunisia today cannot be forced.

Saber Trabelsi, an unemployed resident of a marginalized Tunis suburb, came under the influence of hardline Salafists who came to his neighborhood mosque with offers of redemption and purpose in 2012. He, and many young men like him, reject Sufi mysticism and deride the veneration of saints as “polytheism” and “heresy.”

“Sufi practices are outside Islam and Sunni doctrine. It is paganism,” Mr. Trabelsi says.

But rather than confronting Sufi adherents with threats, insults, violence or denouncing them as kafirs, infidels, like many Salafis have done in Libya and Egypt, Trabelsi instead tries to politely counter their arguments with scripture.

Cristian Science Monitor

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Haruf e la trilogia della pianura

Se non avete ancora letto la Trilogia della pianura di Haruf, fatevi un favore: chiudete immediatamente questa pagina e correte a procurarvi i libri. Non ve ne pentirete. Probabilmente sarà tra le cose più belle, intense, liriche e reali che vi capiterà di trovare fra i romanzi contemporanei e di cui non ringrazieremo mai abbastanza la casa editrice NN per averla – tanto magistralmente – tradotta in italiano, facendo conoscere anche al pubblico nostrano la voce struggente di Kent Haruf, l’acclamato romanziere statunitense scomparso alla fine del 2014.

Tre romanzi che possono essere letti anche svincolati gli uni dagli altri, seguendo l’ordine cronologico di scrittura (quello che ho fatto io) o di pubblicazione o, ancora, immaginandoli ognuno come una storia a sé stante. Quale che sia la scelta, resta invariato il piacere di una lettura su più livelli, ricchissima di spunti, che incanta da un punto di vista tematico quanto strutturale: è il miracolo della letteratura, vivissima, l’uso sapiente della parola capace di rendere straordinarie vite comuni di quell’umanità piccola di un immaginario paese della profonda provincia americana.

Quella stessa capacità di rendere letteraria e lirica la vita ordinaria di un professore mediocre (Stoner, romanzo praticamente perfetto), l’uso attento della parola, della punteggiatura, delle pause e dei silenzi della scrittura di Jenny Offill (anche i suoi romanzi nel catalogo NN); fortissimo l’eco, inoltre, dei grandi maestri della narrativa americana, novecentesca e contemporanea, tra Hemingway, Faulkner, Strout, in una commistione continua di generi e forme letterarie, registri linguistici, modalità espressive. Una narrazione non del tutto priva di difetti: Benedizione, il terzo romanzo in ordine cronologico di scrittura e il primo ad essere stato tradotto in italiano (sulle ragioni della scelta rimandiamo al sito NN, dove ai tempi della pubblicazione era stata pubblicata una lunga lettera che ne spiegava le motivazioni) è il più slegato, non soltanto in termini di trama e personaggi ma anche nel tono – perfettamente adeguato al tema trattato – e quello a mio avviso nel complesso più debole, quasi l’urgenza della scrittura fosse stata impossibile da controllare.

Al pari dell’urgenza della lettura: difficile centellinare le pagine, godendo forse così più appieno della parola, misurata e lirica, ma il legame emotivo che si crea con i personaggi “costringe” ad un una lettura vorace, per poi tornare indietro, ai passi più intensi e rileggerli ad un ritmo più lento.
Non aspettatevi colpi di scena ad ogni pagina, stravaganze ed epici drammi: la grandezza di Haruf risiede tutta, come si accennava, nel potere della parola e del racconto di vite comuni rese straordinarie dalla letteratura e da quel sentire universale, che trascende il tempo e lo spazio. Nella fittizia comunità di Holt, lo scrittore crea la vita e la carica di bellezza, anche quando tragica e disperata, celebra l’uomo e i sentimenti comuni, quelle esistenze ordinarie in cui i giorni scorrono lenti scanditi dal lavoro, dalle stagioni, da felicità misurate; e il dramma, che qualche volta entra nelle vite di queste persone – a cui, inevitabilmente, ci si affeziona terribilmente – lascia sempre spazio, nonostante tutto, alla speranza, a quella fiducia nell’uomo e nei suoi istinti migliori che è, forse, il messaggio più bello di Haruf, quasi un atto di ribellione a quest’epoca di cinismo dilagante.
 

Come accennato, ho scelto di leggere questa trilogia seguendo l’ordine cronologico di scrittura: Canto della pianuraCrepuscolo ed infine Benedizione. Ho osservato l’evoluzione dei personaggi, delle loro storie, ritrovato luoghi e vecchi amici, seguendo i mutamenti dello stile di Haruf, le scelte linguistiche e lessicali, dal periodo ampio, elegante, ricco, dei primi due volumi, alla concisione, le pause, i non detti, dell’ultimo romanzo, dove ogni parola sembra scolpita nel marmo. La parola è attenta, misurata, scelta con cura tanto per raccontare i sentimenti quanto nell’uso del linguaggio tecnico più specifico, in un lavoro di rifinitura che non è difficile immaginare e che ha impegnato notevolmente anche per la traduzione. È un viaggio nell’immaginazione e nella scrittura, storia e parola legate strettamente l’una all’altra come sempre più raramente sembra accadere.


Canto della pianura
, il primo romanzo, è probabilmente quello che maggiormente mi ha colpita, per trama e scrittura: nelle voci alternate di una manciata di personaggi, Haruf crea un microcosmo di uomini e donne – poche, ahimè, ma fondamentali – , i loro drammi, i sogni e le speranze – ancora una volta semplici, misurate – , passioni e solitudini quotidiane. Senza eccedere nel desiderio di rappresentare ad ogni costo ogni cosa, ogni sfumatura, nella deriva del romanzo-mondo che sembra attirare fin troppi scrittori in questi ultimi anni – non sempre con risultati all’altezza delle aspettative, come dicevo, per esempio, dell’ultima opera di Jonathan S. Foer (qui invece una seconda lettura) – , Haruf sceglie il dettaglio, il frammento, circoscrive le storie lasciando al lettore lo sforzo di immaginare ciò che resta sotto la superficie, interpretare i silenzi e le pause, lo spazio infinito oltre la pagina, quasi fosse una lunga short story.Canto della pianura è un inno alla vita, dei tre il romanzo più carico di speranza e fiducia nelle possibilità, anche nei piccoli, grandi, drammi quotidiani. È racconto della vita di provincia, di una piccola comunità capace di accogliere ma anche di escludere con pari intensità, di luoghi fuori dal tempo e persone semplici, ritmi e gesti che si ripetono regolari: la provincia americana bellissima e crudele, che per qualcuno significa casa ed affetti, per altri è quasi soffocamento, una solitudine che non dà scampo. Ed è, soprattutto, riflessione sui rapporti famigliari, laddove famiglia non è determinata solo dal sangue, è canto della vita che inizia – nella venuta al mondo, nelle nuove strade da prendere, nei cambiamenti necessari – e sorprende: di una sedicenne incinta, ripudiata dalla madre, senza un posto dove stare né qualcuno che si prenda cura di lei, che trova rifugio, casa, famiglia, nella più improbabile delle situazioni. Due vecchi fratelli, allevatori di bestiame, solitari e taciturni, che d’istinto accolgono quella ragazzina in difficoltà: lentamente si conoscono, per mezzo di pochissime parole e gesti misurati, mettendo in discussione tutto quello che è stata la vita fino a quel momento. Nel legame che si crea tra Victoria e i fratelli McPheron, non privo di difficoltà ed incomprensioni, c’è la vita e il romanzo tutto. Non vorresti lasciarli mai quei due vecchi fratelli, dapprima quasi indistinguibili l’uno dall’altro, poi sempre più reali, complessi, umani. Due vite da sempre intrecciate, scandite dal duro lavoro, da ritmi e abitudini da tempo consolidate, in quella vecchia casa solitaria in mezzo alla pianura: ogni giorno più o meno identico a quello precedente tra gioie misurate, lavoro, fatica, pensieri semplici. Finchè non arriva Victoria a sconvolgere ogni cosa e a darle un senso: 

Quella ragazza ha bisogno di qualcuno e sono pronta a fare qualsiasi cosa. Ha bisogno di una casa per questi mesi. E anche voi – sorrise – dannati vecchi solitari, avete bisogno di qualcuno. Qualcuno o qualcosa di cui prendervi cura, per cui preoccuparvi, oltre a una vecchia vacca fulva. C’è troppa solitudine qui. Prima o poi morirete senza aver avuto neppure un problema in vita vostra. Non del tipo giusto, comunque. Questa è la vostra occasione

Il legame fortissimo che si crea tra i due vecchi fratelli e quella ragazzina nei guai è il cuore del romanzo, quello che sconvolge tutto e a tutto dà un nuovo significato, che costringe il lettore ad abbassare le difese e lasciarsi catturare dal mondo di Haruf. Si studiano, si osservano timidamente, si muovono in punta di piedi e un poco alla volta si avvicinano, si riconoscono e aprono alle possibilità della vita, agli affetti inaspettati. Non sarà un percorso facile, immediato o privo di incertezze, ma è la vita e Haruf la infonde di speranza e umanità, a tratti di inaspettata comicità. Una storia di contrasti, come lo è la trilogia tutta: la vita di uomini come tanti, in quella piccola comunità da qualche parte in Colorado, insignificante nel confronto col mondo, e quegli spazi sconfinati, la natura maestosa che Haruf carica di poesia struggente. L’attenzione per il dettaglio e la parola che di volta in volta sa farsi lirica nella descrizione della luce dorata che illumina la polvere sollevata da un furgone, o estremamente cruda e diretta nel rappresentare la realtà dell’allevamento. La cernita delle mucche gravide, il difficile parto della vacca, l’abbattimento del cavallo, sono le tre scene più violente, descritte con dovizia di particolari, ma anche nella brutalità Haruf riesce a cogliere poesia e bellezza, vita, insomma. La stessa che, sussurrata, fa da contraltare a quelle scene, in una narrazione per contrasti. Luce ed ombra, silenzio e rumori, brutalità ed umana grazia, in una ricchezza linguistica sorprendente. 


Se Canto della pianura è un inno alla vita, alle sue possibilità, carico di speranza, Crepuscolo rappresenta la crescita, il cambiamento, l’imprevedibilità della vita. E, qualche volta, è sofferenza. Ci sono in questo secondo romanzo le pagine, a mio avviso, più struggenti dell’intera trilogia, istanti di un’intensità emozionale che si fa quasi dolore fisico. Momenti della storia in cui le parole non bastano ad esprimere l’intensità del dolore, come non erano sufficienti o adeguate a dare voce alla profonda gratitudine, all’affetto nato tanto inaspettatamente: 

Stava cercando di trovare parole che potessero servire a qualcosa, ma nelle lingue che conosceva non ce n’erano di adeguate al momento o capaci di cambiare minimamente la situazione. Rimasero in silenzio per un po’. 

Il silenzio che si fa carico di significati inespressi, i gesti ridotti al minimo nel terrore che tutto cambi, che sfugga al controllo distruggendo una perfetta felicità: 

Era come se non prendesse neppure in considerazione la possibilità di muoversi, come se pensasse che restando accanto al suo letto, evitando di muoversi, potesse impedire che succedesse qualcos’altro, a lui o a qualsiasi altra persona al mondo a cui voleva bene. 

Eppure, ancora, è un canto di speranza, di fiducia nell’umanità anche quando sembra impossibile trovare bellezza, bontà. Ritroviamo alcuni vecchi amici di Holt, alle prese con nuove sfide e cambiamenti che spaventano: 

[…] disse a Victoria che il fratello sentiva molto la sua mancanza e parlava di lei ogni giorno, cercando di indovinare cosa stesse facendo a Fort Collins e immaginando come se la stesse cavando la bambina, e man mano che andava avanti con quel discorso la ragazza capì che stava parlando del fratello e insieme di se stesso, e si commosse al punto che ebbe paura di scoppiare a piangere. 

C’è voluto del tempo, qualche incertezza e sbaglio, ma quei vecchi solitari e la ragazza che hanno accolto in casa propria sono diventati una famiglia, legati da un affetto sincero che va oltre il sangue, le parole, la paura dei cambiamenti: 

Un po’ alla volta si erano abituati a quelle nuove presenze nelle loro vite. I mutamenti erano diventati consuetudini che apprezzavano al punto da desiderare che continuassero allo stesso modo giorno dopo giorno. Perché cominciavano a percepire che ogni giorno sarebbe stato un buon giorno, come se il nuovo stato di cose fosse stato quello che avevano sempre desiderato, pur non avendolo mai pensato o previsto in alcun modo. 

Vorresti che nulla cambiasse per paura di turbare quella piccola, perfetta, felicità. Ma il secondo volume della trilogia di Haruf si arricchisce anche di nuovi personaggi, con il loro carico di emozioni e dolori. La famiglia è, ancora, il cuore della storia, quella che non ci si aspetta, con il suo carico di difficoltà e solitudini, ma anche di legami assoluti, nonostante tutto. Ecco, solitudini, un sentimento che sembra percorrere tutti e tre i romanzi, in forme differenti, un fantasma che aleggia sulla storia e fa paura: c’è l’anziana rimasta sola in una casa ingombra di oggetti, il marito abbandonato dalla moglie che fa i conti con due figli da crescere e nuove relazioni, i due vecchi fratelli che da sempre vivono al limite (della contea, della vita stessa); il ragazzino cresciuto dal nonno, le due bambine costrette a fare i conti col padre assente e una madre incapace di prendersi cura di loro, la mamma single con la sua nuova vita all’università; fino all’ultimo romanzo, in cui la solitudine diviene quasi insopportabile, ricordi di vecchie ferite ed incomprensioni e una vita che non è andata esattamente come ci si sarebbe aspettati.In Crepuscolo, si diceva, ci sono anche le pagine più sofferte, quelle che commuovono immensamente: la perdita, il lutto, la distanza, raccontate con grazia assoluta. Ancora, il mondo piccolo degli uomini che si confronta con l’infinità del cielo, dei paesaggi sconfinati, della vita che nonostante tutto va avanti, i cicli della natura, i doveri di ogni giorno, i sussulti del cuore. La brutalità entra ancora una volta in scena ma diventa orrore, mentre Haruf porta sulla pagina per la prima volta la malvagità più imperdonabile. Anche in questo secondo, doloroso romanzo, c’è spazio comunque per la speranza, per la bellezza: della natura struggente, della vita che sa trovare da sé il proprio corso, del cambiamento che porta a nuove, inattese felicità, della crescita, dell’amicizia. Della fiducia nell’uomo, del bisogno di essere comunità, un sentimento quest’ultimo che mi ha ricordato così vividamente le riflessioni di K. Vonnegut sul ruolo fondamentale della coesione tra persone.

 
E, forse, è proprio in Benedizione, infine, che la comunità di Holt si rivela in tutta la sua forza, stringendosi intorno a quel vecchio al termine della vita e alla sua famiglia sofferente, in una narrazione ancora una volta costruita per contrasti: vecchiaia e gioventù, famiglia e solitudini, presente e passato, luci ed ombre. È il romanzo più cupo, nel confronto con la morte e il rimpianto per tutte le mancanze, i segreti, le distanze ormai incolmabili. Le occasioni mancate, la felicità solo sfiorata, le partenze e i ritorni.Ma, ancora una volta, l’ultima, la speranza: perché forse non esiste un perfetto happy ending e alcune colpe sono impossibili da cancellare, ma è necessario credere nella straordinaria bellezza della banalità della vita.

Ciò che ho visto è la gentilezza e la dolcezza reciproche tra le persone. Lo scorrere lento del tempo in una notte d’estate. La vita normale.

Debora Lambruschini, La CriticaLetteraria

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Holt

Finalmente Holt, con i lampioni blu in lontananza, poi sempre più vicini, e le strade deserte e silenziose una volta entrati in città. Jack Burdette è sempre stato troppo grande per Holt. È fuggito dalla città lasciando una ferita difficile da rimarginare, e quando riappare dopo otto anni di assenza, con una vistosa Cadillac rossa targata California, la comunità vuole giustizia. È Pat Arbuckle, direttore dell’Holt Mercury e suo vecchio amico, a raccontare la storia di Jack: dall’adolescenza turbolenta all’accusa di furto, dal suo lungo amore per Wanda Jo Evans al matrimonio lampo con Jessie, donna forte e determinata. Uno dopo l’altro, i ricordi di Pat corrono fino al presente, rivelando le drammatiche circostanze che hanno portato Jack ad abbandonare la città e la famiglia. Il suo ritorno farà saltare ogni certezza, minando la serenità di tutti, specialmente quella di Pat.

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Vincoli

Torna in libreria Kent Haruf, il caso editoriale degli ultimi anni. Con Vincoli si torna a Holt, anzi si va alle origini di Holt, a cavallo tra Ottocento e Novecento nel primo romanzo che ha imposto Haruf all’attenzione del pubblico americano. Un viaggio nella storia di una famiglia delle pianure americane, narrata dalla voce della loro vicina, Sanders Roscoe. Un romanzo corale e travolgente, intenso e poetico, con cui Haruf inizia il suo viaggio nell’America rurale, teatro delle sofferenze e metafora della tenacia dello spirito umano, anticipando tutti gli elementi che rendono unica la sua poetica.

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“Non uccidere il padre”

Il peggior delitto che una madre possa compiere è rendere orfani di padre i propri figli, allontanando dalla loro vita il genitore e nutrendoli di veleni e odio verso di lui, per meschina vendetta personale o inconscia avversione per il genere maschile.

I figli non sono conigli e renderli infelici o virtualmente bastardi è un crimine senza giustificazione, un atto vergognoso che farà crescere nella frustrazione giovani inconsapevoli e privi di colpe, manipolabili per mero egoismo ed essere usati come armi improprie per un vergognoso parricidio.

ETTORE

Prima o poi tutto il male riversato sul coniuge, si ritorcerà comunque su chi l’ha commesso e una vita dissestata e psicologicamente instabile sarà il prezzo da pagare senza sconti per nessuno.

https://www.instagram.com/p/CQc-DoUBm5o/…

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